note di regia

Gli anni passano, velocemente. Ne sono trascorsi ormai cinquantanove da quel 27 gennaio del 1945, quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono ad Auschwitz aprendo le porte su quella tragedia che lo storico Hobsbawm ha definito “la catastrofe del secolo breve”. Da quel momento, seppur fra mille difficoltà politiche, sociali e culturali, l’Olocausto non ha mai smesso di produrre ricordi di dolori, privazioni, orrori, morte. Grazie a questi ingombranti frammenti della memoria l’arte ha cercato con tenacia di rappresentare quel momento lungo e oscuro in cui la Storia è sembrata impazzire. Bent di Martin Sherman fa parte di questo impegno, andando oltre e indicando diverse direzioni, altri sottotesti. Se l’Olocausto è stato soprattutto il brutale tentativo di eliminare nei campi di concentramento le minoranze allo scopo di realizzare la razza perfetta, quella ariana, nel dramma di Sherman, ammirevole per l’impeccabile solidità della sua struttura teatrale, la deportazione dei personaggi coinvolge il pubblico in un doppio inferno: l’Olocausto e, in modo particolare l’annientamento di una minoranza fra le minoranze, gli omosessuali, i triangoli rosa. Dice Horst a Max sul treno che li sta portando nel lager di Dachau: “Se sei frocio devi portare questo. Se sei ebreo una stella gialla, politico – un triangolo rosso. Per i delinquenti comuni è verde. Il rosa è il peggiore”. Dunque non sorprende che l’allestimento teatrale di Bent sia stato un evento nei primi anni Ottanta per la fermezza dimostrata dal drammaturgo inglese nell’affrontare un tema così scottante come l’Olocausto gay, rimasto sotto le ceneri dei forni molto più a lungo dello sterminio, tragicamente immane, del popolo ebraico. Tuttavia Bent riesce ad essere universale poiché, come ha detto Marco Mattolini, traduttore del testo e regista del primo spettacolo allestito in Italia, “il discorso della lotta fra minoranze e della mancanza di solidarietà fra gli oppressi riguarda assolutamente tutti”. Come pure a noi tutti riguarda il discorso sulla libertà, quella violata, repressa, cancellata dai disumani capricci della Storia e dei suoi tragici attori. Uno fra i tanti sottotesti del dramma di Sherman, la libertà è il segno distintivo di questo allestimento che ha voluto leggere i personaggi di Bent seguendo la loro percezione dell’autodeterminazione in un luogo in cui lasciarsi coinvolgere dal proprio “io” equivale a rischiare di morire. Sembra una scommessa persa in partenza quella di Horst e Max a Dachau: non lasciare che i propri aguzzini annientino anche lo spirito contrapponendo l’amore alla violenza dell’odio. L’essenza dell’amore, la libertà riconquistata a duro prezzo, o la ribellione nella morte, questo e solo questo potrà forse riscattarli da quell’incubo interminabile. (giovanni nardoni e lino belleggia)